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Gli scontri, la cui dinamica non è mai stata interamente chiarita, portarono alla morte di dieci sostenitori socialisti e del consigliere comunale liberale Giulio Giordani, oltre che al ferimento di circa sessanta persone. Una vasta memorialistica e contribuiti storiografici si sono misurati sulla responsabilità dei tragici avvenimenti e su chi avesse «per primo» aperto il fuoco. Secondo gli storici Dunnage e Fabio Fabbri però, la questione appare di secondaria importanza di fronte al nodo principale della faccenda, ossia l’atteggiamento passivo e compiacente della forza pubblica nei confronti dei fascisti, e soprattutto del questore di Bologna Luigi Poli<ref name=Fabbri1>{{cita|Fabbri|pp. 356-358}}.</ref>. Secondo lo storico Nazario Sauro Onofri il questore Poli, nonostante fosse perfettamente al corrente della situazione, non intervenne in tempo e quasi lasciò che le parti si scontrassero, cosciente che gli unici che avessero qualcosa da perdere in quel particolare momento storico erano i socialisti, divisi da questioni interne e sotto l’attacco politico delle organizzazioni liberali e di destra unite in funzione antisocialista<ref name=Fabbri1/>.
Gli scontri, la cui dinamica non è mai stata interamente chiarita, portarono alla morte di dieci sostenitori socialisti e del consigliere comunale liberale Giulio Giordani, oltre che al ferimento di circa sessanta persone. Una vasta memorialistica e contribuiti storiografici si sono misurati sulla responsabilità dei tragici avvenimenti e su chi avesse «per primo» aperto il fuoco. Secondo gli storici Dunnage e Fabio Fabbri però, la questione appare di secondaria importanza di fronte al nodo principale della faccenda, ossia l’atteggiamento passivo e compiacente della forza pubblica nei confronti dei fascisti, e soprattutto del questore di Bologna Luigi Poli<ref name=Fabbri1>{{cita|Fabbri|pp. 356-358}}.</ref>. Secondo lo storico Nazario Sauro Onofri il questore Poli, nonostante fosse perfettamente al corrente della situazione, non intervenne in tempo e quasi lasciò che le parti si scontrassero, cosciente che gli unici che avessero qualcosa da perdere in quel particolare momento storico erano i socialisti, divisi da questioni interne e sotto l’attacco politico delle organizzazioni liberali e di destra unite in funzione antisocialista<ref name=Fabbri1/>.
La strage di Palazzo d’Accursio si può considerare quindi un im­portante nodo storico-politico utile a dimostrare la connivenza della polizia con il movimento fascista prima del definitivo affermarsi di quest’ultimo a Bologna<ref name=Dunnage92-64/>.
La strage di Palazzo d’Accursio si può considerare quindi un importante nodo storico-politico utile a dimostrare la connivenza della polizia con il movimento fascista prima del definitivo affermarsi di quest’ultimo a Bologna<ref name=Dunnage92-64/>.
L’episodio costò caro al movimento socialista bolognese: il fascismo si appropriò della figura di Giordani innalzandolo a primo grande martire fascista e trovò legittimazione nell’azione paramilitare contro le amministrazioni di sinistra da parte dell’opinione pubblica moderata, la quale incolpò senza dubbio i socialisti quali colpevoli della strage. Il sindaco Enio Gnudi e la giunta si ritirarono senza nemmeno insediarsi e ad essi subentrò un commissario prefettizio che preparò il terreno alle successive giunte nazionaliste alla guida della città<ref>{{cita|Franzinelli|p. 62}}.</ref><ref>{{cita libro|autore=[[Nicola Tranfaglia]]|titolo=La prima guerra mondiale e il fascismo|editore=TEA|città=Milano|anno=1996|pp=249-250|ISBN=88-7818-072-6}}</ref>.
L’episodio costò caro al movimento socialista bolognese: il fascismo si appropriò della figura di Giordani innalzandolo a primo grande martire fascista e trovò legittimazione nell’azione paramilitare contro le amministrazioni di sinistra da parte dell’opinione pubblica moderata, la quale incolpò senza dubbio i socialisti quali colpevoli della strage. Il sindaco Enio Gnudi e la giunta si ritirarono senza nemmeno insediarsi e ad essi subentrò un commissario prefettizio che preparò il terreno alle successive giunte nazionaliste alla guida della città<ref>{{cita|Franzinelli|p. 62}}.</ref><ref>{{cita libro|autore=[[Nicola Tranfaglia]]|titolo=La prima guerra mondiale e il fascismo|editore=TEA|città=Milano|anno=1996|pp=249-250|ISBN=88-7818-072-6}}</ref>.
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A farsi interprete della tesi del fascismo come «manipolo di avanguardia della reazione antisocialista», sostenuta da esercenti e agrari, borghesi, ceti medi e militari, non fu solo, tra le righe, la stessa Commissione Parlamentare d’Inchiesta che si era occupata di stendere una versione governativa dei fatti di Bologna, ma un più vasto schieramento d’opinione pubblica, di cui la stampa conservatrice era portavoce.
A farsi interprete della tesi del fascismo come «manipolo di avanguardia della reazione antisocialista», sostenuta da esercenti e agrari, borghesi, ceti medi e militari, non fu solo, tra le righe, la stessa Commissione Parlamentare d’Inchiesta che si era occupata di stendere una versione governativa dei fatti di Bologna, ma un più vasto schieramento d’opinione pubblica, di cui la stampa conservatrice era portavoce.
Anche a livello politico le interrogazioni parlamentari furono improntate nell’individuare i colpevoli in un’unica direzione. Nell’interrogazione svoltasi alla Camera il 22 novembre presieduta dal sottosegretario [[Camillo Corradini]], che esordì confermando la buona prova del servizio di sicurezza predisposto a Bologna e l’esposizione della bandiera rossa come causa dell’inizio degli scontri. In Aula la destra fece di tutto per «constatare che l’origine prima dei fatti si deve all’esposizione della bandiera rossa» come affermò il deputato [[Giovanni Calò]], e ad affermare che «il fascismo è la logica reazione ai metodi adottati dal partito socialista e alla impotenza del Governo nel difendere i più elementari diritti della vita» come sostenne il membro del [[Partito Popolare Italiano (1919)|Partito Popolare Italiano]] [[Paolo Cappa]]<ref>{{cita|Fabbri|pp. 365-366}}.</ref>.
Anche a livello politico le interrogazioni parlamentari furono improntate nell’individuare i colpevoli in un’unica direzione. Nell’interrogazione svoltasi alla Camera il 22 novembre presieduta dal sottosegretario [[Camillo Corradini]], che esordì confermando la buona prova del servizio di sicurezza predisposto a Bologna e l’esposizione della bandiera rossa come causa dell’inizio degli scontri. In Aula la destra fece di tutto per «constatare che l’origine prima dei fatti si deve all’esposizione della bandiera rossa» come affermò il deputato [[Giovanni Calò]], e ad affermare che «il fascismo è la logica reazione ai metodi adottati dal partito socialista e alla impotenza del Governo nel difendere i più elementari diritti della vita» come sostenne il membro del [[Partito Popolare Italiano (1919)|Partito Popolare Italiano]] [[Paolo Cappa]]<ref>{{cita|Fabbri|pp. 365-366}}.</ref>.
Solo l’onorevole Claudio Treves ribatté che da tempo si reclamava un’azione violenta fascista contro il comune socialista di Bologna, e che tra le file socialiste si aveva «la sensazione che della violenza noi siamo sempre stati le vittime, dall'[[assalto all’Avanti!]] di Milano all’incendio de ”[[Il Lavoratore|Il Lavoratore]]” di [[Trieste]], dalle revolverate del comizio di [[Lodi]] i tristi fatti di [[Como]]». Ma il suo intervento trovò consenso solo dalla sinistra e rumoreggiamenti dal resto dell’arco parlamentare<ref>{{cita|Fabbri|p. 366}}.</ref>.
Solo l’onorevole Claudio Treves ribatté che da tempo si reclamava un’azione violenta fascista contro il comune socialista di Bologna, e che tra le file socialiste si aveva «la sensazione che della violenza noi siamo sempre stati le vittime, dall'[[assalto all’Avanti!]] di Milano all’incendio de ”[[Il Lavoratore]]” di [[Trieste]], dalle revolverate del comizio di [[Lodi]] i tristi fatti di [[Como]]». Ma il suo intervento trovò consenso solo dalla sinistra e rumoreggiamenti dal resto dell’arco parlamentare<ref>{{cita|Fabbri|p. 366}}.</ref>.
In un clima teso, prese la parola [[Luigi Federzoni]] che sferrò l’attacco finale contro la «signoria del partito socialista» in provincia di Bologna e contro la «tacita rinunzia del governo a far rispettare le leggi», sostenendo che i privati cittadini hanno avuto tutto il diritto i difendere se stessi e i loro diritti dalle violenze socialiste, e che i socialisti non avevano alcun diritto di dolersi di questo<ref>{{cita|Fabbri|pp. 366-367}}.</ref>.
In un clima teso, prese la parola [[Luigi Federzoni]] che sferrò l’attacco finale contro la «signoria del partito socialista» in provincia di Bologna e contro la «tacita rinunzia del governo a far rispettare le leggi», sostenendo che i privati cittadini hanno avuto tutto il diritto i difendere se stessi e i loro diritti dalle violenze socialiste, e che i socialisti non avevano alcun diritto di dolersi di questo<ref>{{cita|Fabbri|pp. 366-367}}.</ref>.
Nei giorni immediatamente successivi quindi, presso i vertici dello Stato venne consacrata la tesi descritta da Poli, confermata dal prefetto e ribadita alla Camera da Corradini, secondo la quale furono i socialisti a sparare per primi e furono loro a dare il via agli incidenti sventolando la bandiera rossa<ref>{{cita|Fabbri|p. 368}}.</ref>.
Nei giorni immediatamente successivi quindi, presso i vertici dello Stato venne consacrata la tesi descritta da Poli, confermata dal prefetto e ribadita alla Camera da Corradini, secondo la quale furono i socialisti a sparare per primi e furono loro a dare il via agli incidenti sventolando la bandiera rossa<ref>{{cita|Fabbri|p. 368}}.</ref>.
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Gli scontri di Palazzo d’Accursio mostrarono l’impreparazione culturale e militare massimalista sul terreno dello scontro politico; i dirigenti socialisti pensarono che pistole e bombe a mano potessero bastare ad avere effetto deterrente sugli squadristi, ma non si resero conto le manifestazioni e le sfilate non sarebbero bastate a sbaragliare un nemico nelle cui fila militavano giovani forgiati dal [[Prima guerra mondiale|conflitto]] appena concluso<ref>{{cita|Franzinelli|pp. 62-63}}.</ref>.
Gli scontri di Palazzo d’Accursio mostrarono l’impreparazione culturale e militare massimalista sul terreno dello scontro politico; i dirigenti socialisti pensarono che pistole e bombe a mano potessero bastare ad avere effetto deterrente sugli squadristi, ma non si resero conto le manifestazioni e le sfilate non sarebbero bastate a sbaragliare un nemico nelle cui fila militavano giovani forgiati dal [[Prima guerra mondiale|conflitto]] appena concluso<ref>{{cita|Franzinelli|pp. 62-63}}.</ref>.
La collaborazione della polizia con il mo­vimento fascista può certamente essere attri­buita ai generali sentimenti antisocialisti diffusi nei ranghi del corpo e motivati dal­ l’esperienza degli scioperi generali e delle occupazioni di terre che avevano caratteriz­zato il [[biennio rosso in Italia|biennio rosso]]. Come scrisse lo storico [[Renzo De Felice]], in quegli anni i poliziotti fu­rono costretti a lunghi turni di servizio e molte ore di straordinario risultando provati sul piano sia fisico che psicologico. Ciò costituì un motivo di esasperazione che veniva esacerbato dalla campagna mediatica contro le forze di polizia – ree di essere al servizio dei fascisti – che la stampa socia­lista indirizzava loro. Lo storico Luigi Fabbri, considera tali campagne giornalistiche improntate sull’odio uno dei principali errori nella strate­gia seguita dal partito socialista dopo la guerra, dal momento che colpivano e pro­vocavano soprattutto lo strato inferiore del­ le forze di polizia. La ricerca archivistica svol­ta a Bologna mostra che nei mesi iniziali dell’attacco fascista l’antisocialismo risultò un collante nella collaborazione tra forze di polizia e squadristi. La morte di una guardia regia e di un funziona­rio della questura durante uno scontro tra una folla di dimostranti anarchici e la poli­zia, il 14 ottobre 1920, può anzi essere stato per molti poliziotti bolognesi l’ultimo e decisivo avve­nimento che fece diventare le simpatie verso i fascisti in vere e proprie dimostrazioni di solidarietà e complicità<ref>{{cita|Dunnage|pp. 64-65}}.</ref>.
La collaborazione della polizia con il movimento fascista può certamente essere attribuita ai generali sentimenti antisocialisti diffusi nei ranghi del corpo e motivati dal­ l’esperienza degli scioperi generali e delle occupazioni di terre che avevano caratteriz­zato il [[biennio rosso in Italia|biennio rosso]]. Come scrisse lo storico [[Renzo De Felice]], in quegli anni i poliziotti fu­rono costretti a lunghi turni di servizio e molte ore di straordinario risultando provati sul piano sia fisico che psicologico. Ciò costituì un motivo di esasperazione che veniva esacerbato dalla campagna mediatica contro le forze di polizia – ree di essere al servizio dei fascisti – che la stampa socia­lista indirizzava loro. Lo storico Luigi Fabbri, considera tali campagne giornalistiche improntate sull’odio uno dei principali errori nella strate­gia seguita dal partito socialista dopo la guerra, dal momento che colpivano e provocavano soprattutto lo strato inferiore del­ le forze di polizia. La ricerca archivistica svol­ta a Bologna mostra che nei mesi iniziali dell’attacco fascista l’antisocialismo risultò un collante nella collaborazione tra forze di polizia e squadristi. La morte di una guardia regia e di un funziona­rio della questura durante uno scontro tra una folla di dimostranti anarchici e la poli­zia, il 14 ottobre 1920, può anzi essere stato per molti poliziotti bolognesi l’ultimo e decisivo avvenimento che fece diventare le simpatie verso i fascisti in vere e proprie dimostrazioni di solidarietà e complicità<ref>{{cita|Dunnage|pp. 64-65}}.</ref>.
=== Le indagini e il processo ===
=== Le indagini e il processo ===
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Nel giro di un paio di mesi — lentamente e continuamente in modo tale per alimentare la campagna di stampa — furono arrestati 63 dirigenti socialisti. I primi a finire in carcere, il 27 novembre, furono Pini, Casucci, Venturi e Gelosi, ai quali seguirono Bidone, Lanzi, Franchi, Guglielmini, Cambisi e altri e gli ultimi, il 21 marzo, furono Gaiani e Aurelio Minghetti. L’ondata di arresti, accompagnata da atti di pubblico vilipendio e riprovazione accademica verso i professori di orientamento socialista , si mise in moto fin da subito<ref>{{cita|Fabbri|p. 375}}.</ref>. Ogni ondata di arresti, ovviamente, era accompagnata da nuove rivelazioni sull’eccidio, la maggior parte delle quali erano false, anche se prefetto e questore non intervennero mai per ristabilire la verità. Il caso più clamoroso avvenne il 29 novembre, quando ”Il Resto del Carlino” pubblicò un lungo articolo dal titolo: ”Una scoperta sensazionale: il deliberato proposito di sopprimere la minoranza e di impossessarsi della città”, il cui contenuto riguardo ai fatti era talmente distorto che fece storcere il naso allo stesso Poli, il quale si sentì il dovere di scrivere al prefetto che i fatti illustrati nell’articolo «non furono affatto comunicati da questo ufficio, né rispondono a verità»<ref>{{cita|Onofri|pp. 291-292}}.</ref>.
Nel giro di un paio di mesi — lentamente e continuamente in modo tale per alimentare la campagna di stampa — furono arrestati 63 dirigenti socialisti. I primi a finire in carcere, il 27 novembre, furono Pini, Casucci, Venturi e Gelosi, ai quali seguirono Bidone, Lanzi, Franchi, Guglielmini, Cambisi e altri e gli ultimi, il 21 marzo, furono Gaiani e Aurelio Minghetti. L’ondata di arresti, accompagnata da atti di pubblico vilipendio e riprovazione accademica verso i professori di orientamento socialista , si mise in moto fin da subito<ref>{{cita|Fabbri|p. 375}}.</ref>. Ogni ondata di arresti, ovviamente, era accompagnata da nuove rivelazioni sull’eccidio, la maggior parte delle quali erano false, anche se prefetto e questore non intervennero mai per ristabilire la verità. Il caso più clamoroso avvenne il 29 novembre, quando ”Il Resto del Carlino” pubblicò un lungo articolo dal titolo: ”Una scoperta sensazionale: il deliberato proposito di sopprimere la minoranza e di impossessarsi della città”, il cui contenuto riguardo ai fatti era talmente distorto che fece storcere il naso allo stesso Poli, il quale si sentì il dovere di scrivere al prefetto che i fatti illustrati nell’articolo «non furono affatto comunicati da questo ufficio, né rispondono a verità»<ref>{{cita|Onofri|pp. 291-292}}.</ref>.
Pochi mesi dopo gli avvenimenti fu allontanato da Bologna il vice questore Lapolla perché risultò che aveva costantemente operato in accordo con i fascisti, quando la sera del 4 novembre venne assalita la sede del sindacato, mentre lo stesso Poli, che al processo fu definito il «portavoce» dei fascisti, sarà allontanato da Bologna nei primi mesi del 1921<ref name=Onofri282>{{cita|Onofri|p. 282}}.</ref>. Diversi rapporti e pubblicazioni sostennero la tesi di un attacco socialista premeditato, ed elogiarono Poli per il coraggio dimostrato di fronte a quella che veniva considerata una dimostra­zione della prepotenza socialista. Tuttavia agli occhi del presidente del consiglio [[Giovanni Giolitti]], Poli aveva chiaramente oltrepassato i limiti della propria autorità, come dimostra un telegramma che lo stesso Presidente del Consiglio inviò al prefetto di Bologna, Visconti, nel gennaio 1921, ordi­nandogli di ammonire il questore perché non abusasse del proprio potere e minac­ciandone il trasferimento. Trasferimento che in effetti avvenne nel mese successivo<ref>{{cita|Dunnage 1992|p. 66}}</ref>.
Pochi mesi dopo gli avvenimenti fu allontanato da Bologna il vice questore Lapolla perché risultò che aveva costantemente operato in accordo con i fascisti, quando la sera del 4 novembre venne assalita la sede del sindacato, mentre lo stesso Poli, che al processo fu definito il «portavoce» dei fascisti, sarà allontanato da Bologna nei primi mesi del 1921<ref name=Onofri282>{{cita|Onofri|p. 282}}.</ref>. Diversi rapporti e pubblicazioni sostennero la tesi di un attacco socialista premeditato, ed elogiarono Poli per il coraggio dimostrato di fronte a quella che veniva considerata una dimostra­zione della prepotenza socialista. Tuttavia agli occhi del presidente del consiglio [[Giovanni Giolitti]], Poli aveva chiaramente oltrepassato i limiti della propria autorità, come dimostra un telegramma che lo stesso Presidente del Consiglio inviò al prefetto di Bologna, Visconti, nel gennaio 1921, ordinandogli di ammonire il questore perché non abusasse del proprio potere e minac­ciandone il trasferimento. Trasferimento che in effetti avvenne nel mese successivo<ref>{{cita|Dunnage 1992|p. 66}}</ref>.
L’istruttoria per il processo si concluse il 15 novembre 1921 con l’assoluzione di circa 50 persone (in parte già detenute) e con il rinvio a giudizio di un’altra dozzina, imputate per reati più gravi. Il processo, affidato al Pubblico Ministero [[Dino Grandi]]<ref name=Fabbri358/> (che proprio appena dopo i fatti di palazzo d’Accursio si iscrisse al Fascio di combattimento di Bologna, dove assunse immediatamente un ruolo di primo piano come direttore dell’organo ”[[L’Assalto (periodico)|L’Assalto]]”, per divenire in seguito segretario politico regionale dei fasci emiliano-romagnoli)<ref>{{cita web|url=https://www.treccani.it/enciclopedia/dino-grandi_%28Dizionario-Biografico%29/|titolo=Grandi, Dino|editore=Treccani.it|autore=Paolo Nello|accesso=26 novembre 2021}}</ref>, si svolse alla [[Corte d’assise (Italia)|Corte di Assise]] di [[Milano]] tra il gennaio e il marzo 1923, sotto l’occhio vigile e costante delle squadre fasciste<ref name=Fabbri358/>. In assenza di prove accusatorie consistenti, furono assolti con formula piena tutti gli imputati tranne Pietro Venturi (il quale, al momento della sparatoria, si trovava con Gnudi sul balcone, cioè dalla parte opposta a quella del pubblico<ref name=Onofri281/>), cui vennero inflitti 13 anni di carcere per complicità nell’assassinio di Giordani, e nove mesi a Nerino Dadi per aver sparato ad un agente. Il 3 aprile, dopo una “coda” processuale, vennero condannati in [[contumacia]] all'[[ergastolo]] i dirigenti socialisti Vittorio Martelli, Armando Cocchi, e Pio Pizzirani, già espatriati, per aver cagionato la morte di Giordani e il ferimento di Colliva e Biagi<ref name=Fabbri358/>.
L’istruttoria per il processo si concluse il 15 novembre 1921 con l’assoluzione di circa 50 persone (in parte già detenute) e con il rinvio a giudizio di un’altra dozzina, imputate per reati più gravi. Il processo, affidato al Pubblico Ministero [[Dino Grandi]]<ref name=Fabbri358/> (che proprio appena dopo i fatti di palazzo d’Accursio si iscrisse al Fascio di combattimento di Bologna, dove assunse immediatamente un ruolo di primo piano come direttore dell’organo ”[[L’Assalto (periodico)|L’Assalto]]”, per divenire in seguito segretario politico regionale dei fasci emiliano-romagnoli)<ref>{{cita web|url=https://www.treccani.it/enciclopedia/dino-grandi_%28Dizionario-Biografico%29/|titolo=Grandi, Dino|editore=Treccani.it|autore=Paolo Nello|accesso=26 novembre 2021}}</ref>, si svolse alla [[Corte d’assise (Italia)|Corte di Assise]] di [[Milano]] tra il gennaio e il marzo 1923, sotto l’occhio vigile e costante delle squadre fasciste<ref name=Fabbri358/>. In assenza di prove accusatorie consistenti, furono assolti con formula piena tutti gli imputati tranne Pietro Venturi (il quale, al momento della sparatoria, si trovava con Gnudi sul balcone, cioè dalla parte opposta a quella del pubblico<ref name=Onofri281/>), cui vennero inflitti 13 anni di carcere per complicità nell’assassinio di Giordani, e nove mesi a Nerino Dadi per aver sparato ad un agente. Il 3 aprile, dopo una “coda” processuale, vennero condannati in [[contumacia]] all'[[ergastolo]] i dirigenti socialisti Vittorio Martelli, Armando Cocchi, e Pio Pizzirani, già espatriati, per aver cagionato la morte di Giordani e il ferimento di Colliva e Biagi<ref name=Fabbri358/>.